Le piaga della povertà

Le piaga della povertà

Torna spesso papa Francesco sulla piaga delle povertà: “Questo povero grida e il Signore
lo ascolta. Il credente non può restare a braccia conserte, indifferente, o a braccia aperte,
fatalista, ma deve tendere la mano ai poveri”.
Un monito spesso disatteso o ritenuto solo uno sfogo di un papa pauperista. Eppure le
povertà proliferano tra le sterpaglie dell’ingiustizia. Vogliamo riflettere sulle radici della
povertà? Non basta però pubblicizzarle sui media e neppure presentarci come difensori
dei deboli. Basterebbe più sensibilità, ascoltare il grido dei poveri e strappare il cuore di
pietra per un “cuore di carne”.
Ascoltiamo il grido straziante di bambini che hanno fame, freddo, abbandonati alla strada.
Sono vittime di umiliazioni, di chi li usa sessualmente lasciando nelle loro mani sporche
una moneta sporca, sono vittime delle bombe che hanno uccisi i loro genitori, ma
soprattutto della nostra indifferenza, pronti e attenti a curare un cane, un gatto, mentre
ignoriamo un piccolo solo e indifeso. Si tratta di un grido innocente che si trova ad
affrontare le tempeste della vita senza speranza, un grido di una vittima dell’ingiustizia di
tutti noi che non muoviamo un dito. Non è possibile, dinnanzi a tali grida, restare a braccia
conserte oppure aprire le braccia come simbolo di impotenza. Non siamo impotenti e nemmeno
incapaci di accogliere la sofferenza umana per liberarla, riscattarla. Basterebbe un po’ di coraggio e
quella forza dell’amore che dà speranza.
Quanta ingiustizia e miseria su cui c’è il nostro timbro o la nostra responsabilità. Penso
spesso ai lauti banchetti nelle nostre case e alle mani sporche del povero che addenta un
pezzo di pane a volte raccolto nei sacchi della pattumiera. Per tranquillizzare la nostra
coscienza ci diciamo tra una portata di cibo e l’altra che il mondo è sempre andato così e
che dopotutto i poveri sono responsabili della loro indigenza. A far tacere la coscienza
siamo bravi! Quanto possa ancora durare questo gioco all’egoismo non lo so. Serve
comunque fermarci di fronte a tante povertà, ascoltare la sofferenza dei poveri, sostare nei
lazzaretti dove sono accatastati corpi raccolti dalla strada; vite che muoiono dentro,
nell’anima, perché nessuna speranza c’è per loro; storie annullate e segregate, distrutte in
un ghetto, in galera, in uno zoo di drogati. Qui la speranza muore… Una persona che non
riceve speranza, non solo è vittima dell’ingiustizia, ma lentamente muore perché non
intravede più nessuno spiraglio di luce nel suo futuro.
In una società di palloni gonfiati, in cui il povero è ritenuto un fallito, non c’è compassione.
La carità è possibile se scendiamo dal piedistallo, per correre verso quelli dallo sguardo
triste, a volte anche disperato. Non sono colpevoli della loro miseria, ma vittime soltanto
dell’egoismo che serpeggia dappertutto. Per questo vivere a contatto coi bisognosi è
necessario per tutti noi. Non è una scelta sociologica, non è lo stile di vita di alcune
persone buone, è un’esigenza fondamentale di chi crede nella vita. Papa Francesco
c’invita a “riconoscerci mendicanti fra i fratelli e le sorelle, ma soprattutto fra i più poveri”.
L’ingiustizia, radice delle povertà, è causata da tutti quelli che stanno bene: sacerdoti,
religiosi e credenti che hanno fretta di andare al tempio a pregare e lasciano sui margini
della strada il povero, il disperato, e si lubrificano la coscienza dicendo che c’è chi pensa a
loro; che non hanno tempo. L’ingiustizia ha la radice della povertà in coloro che in nome
della legge, buttano i poveri in galera per pulire le città dagli scarti umani. Quanta ipocrisia!

Ma per dare speranza ai poveri noi dobbiamo liberare la mente e il cuore dalla melma
dell’egoismo che ci impedisce il volo verso le vittime dell’ingiustizia. Si tratta dunque
d’uscire dalla “gabbia” del nostro egoismo per andare verso i poveri, verso chi ha bisogno.
Papa Francesco usa parole taglienti per spingerci verso questo volo, ci dice di “smettere di
pascerci indisturbati e comodamente fra le piccole soddisfazioni quotidiane”. Ci suggerisce
che la felicità è nel dare e non nel ricevere, ci ricorda che saremo giudicati sull’amore. Tra
una telefonata e l’altra o mentre si accompagna il cagnolino a fare la pipì, tentiamo di
chiedere a Dio con parole sincere: “Svegliaci, Signore, dalla calma oziosa, dalla quieta
bonaccia dei nostri porti sicuri, liberaci dalla ricerca dei nostri successi, dalla nostra
immagine ostentata. Insegnaci a saper lasciare la rotta della nostra strada, a trovarci sulla
tua, per inciampare nei poveri, a fermarci, a dare speranza”.

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