La scorta dell’amore

La scorta dell’amore

Jean Paul Sartre afferma: “Lo sai, mettersi ad amare qualcuno è un’impresa. Bisogna
avere un’energia, una generosità, un accecamento. C’è perfino un momento, al principio,
in cui bisogna saltare un precipizio: se si riflette non lo si fa. Io so che non salterò mai più”.
Non sono d’accordo, un’affermazione simile inquina l’accoglienza. L’amore è una scorta
essenziale per accogliere gli emarginati. Tutti siamo in grado di sviluppare o di migliorare
le nostre abilità sociali per interagire in maniera soddisfacente con gli altri. Non possiamo
negare la speranza di un futuro diverso a chi giace disteso sui marciapiedi.


È il nuovo silenzioso cancro che sta riproducendo sacche di metastasi nelle nostre città:
l’indifferenza nei confronti dei poveri. Senz’accorgersene, la respiriamo nell’aria
camminando sui marciapiedi, prendendo i mezzi pubblici o facendo la fila negli uffici; la
vediamo radicarsi leggendo i giornali e guadando talk show, e moltiplicarsi navigando sui
social o ascoltando le invettive di alcuni benpensanti. Gli anticorpi che abbiamo sono
deboli perché negli ultimi anni sono rapidamente cambiate le forme di povertà e sono
soprattutto mutate le percezioni che si hanno sugli stati di povertà. Un dato è certo: la
povertà avanza a macchia d’olio. Di solito non siamo prepararti o non vogliamo affrontare
un’accoglienza difficile, problematica. Il più delle volte evitiamo d’incontrare le persone
degradate, per quel tratto di menefreghismo che ci appartiene.


Sartre afferma che gli altri sono un precipizio da saltare, quindi non lo si salta. Gli altri, lo
dice il termine stesso, sono diversi da noi, alcuni con diversità accentuate. Molti emarginati
(drogati, clochard, profughi, delinquenti) se li avviciniamo con sensibilità e rispetto si
lasciano aiutare, migliorano, recuperano fiducia, speranza. Troppo spesso siamo
indifferenti, staccati dalle persone povere, disperate, sconvolte ed emarginate. Diciamo
che non siamo preparati, idonei a rapportarci. La verità è un’altra, siamo egoisti e
menefreghisti insieme. L’esclusione delle persone ai margini della società, è un fatto
emotivo di difesa: non si accetta la persona degradata, povera, senza fissa dimora perché
non siamo disponibili a perdere qualcosa di nostro. Alla base di ogni rifiuto del povero c’è
l’egoismo, una forma mentale presente nel bunker dell’io che nemmeno una carica di
tritolo infrange.


Sono pochi quelli che riescono a stare accanto alle persone misere disperate. Solo coloro
che sono allenati e scorgono nelle persone sofferenti il volto del fratello. Altri sono abili nel
buttare addosso una fiumana di parole e di intenti che rimangono solo nella loro testa.
Sono attrezzati di “potrebbe, “dovrebbe”, “bisognerebbe”, insomma di “-ebbe” da riempire il
mitico caso di Pandora. Il guaio è che ciò che hanno nella testa non passa nel cuore, nelle
azioni. Non solo. I menefreghisti sono abili nell’autoassolversi, affermando che la
solidarietà non risolve le tante e diverse povertà, ci vuole una politica adeguata.
Un’affermazione che spesso torna sulle labbra dei benpensanti: ‘Non serve aiutare chi
dorme sotto i ponti o sui marciapiedi, il problema va risolto politicamente’. Son solito
rispendere che se uno o più finiscono nella bara perché abbandonati, il problema è
umano, non politico.


Non ho dubbi in quanto, attraverso i media, c’è saltuariamente qualche appello a
partecipare a gesti solidali. Non basta commuoverci in alcune circostanze quando entrano
nelle nostre case immagini di bambini di strada, clochard che muoiono sulla panchina,
minorenni finiti nel giro della droga e prostituzione. L’elenco potrebbe essere interminabile.
Madre Teresa scrisse: “La povertà più grande che c’è nel mondo non è la mancanza di
cibo, ma quella d’amore. C’è la povertà della gente che non è soddisfatta da ciò che ha,

che non è capace di soffrire, che si abbandona alla disperazione. La povertà di cuore
spesso è più difficile da combattere e sconfiggere”. Aggiungo che una povertà poco
conosciuta consiste nella mancanza di speranza sul futuro dei poveri.
Una canzone di Baglioni parla di “uomini persi”, d’accogliere! Certamente il testo non
lascia margini d’indifferenza: “Anche chi dorme in un angolo pulcioso coperto dai giornali
le mani a cuscino, ha avuto un letto bianco da scalare e un filo di luce accesa dalla stanza
accanto. Due piedi svelti e ballerini a dare calci al mare nell’ultima estate da bambino,
piccole giostre con tanta luce e poca gente e un giro soltanto”. La bellissima canzone,
Uomini persi, di Baglioni mi ha sempre colpito per la sua dolcezza e suggerito che la
capacità di accogliere questi “persi”, parte dalla “batteria del cuore”, che va continuamente
caricata. Sono certo che sono le esperienze solidali a cariare il cuore, a sviluppare in noi la
sensibilità, l’empatia verso chi soffre e a sostenere la speranza di un nuovo futuro in cui i
poveri si siederanno alla stessa mensa del ricco.

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