Si moriva in casa

Si moriva in casa

“I ricordi che ci riportano nel passato hanno qualcosa da suggerirci, da insegnarci. Conservano esperienze, desideri raggiunti, ideali che solo il futuro ha potuto accertare. Nel mio piccolo mondo di ieri, povero di cose e ricco d’umano, ho conosciuto persone, vissuto fatti che hanno lasciato in me il desiderio di correre verso il futuro con in mano la fiaccola accesa.” Don Chino Pezzoli

Un tempo la gente moriva in casa, in casa si vegliavano i morti per aiutarli a congedarsi dalla vita. Spegnersi nel proprio letto, in piena coscienza e accanto alle persone amate è stato a lungo considerato il miglior modo di morire. In passato esistevano perfino dei manuali per aiutare la gente ad affrontare al meglio la sofferenza e il distacco, a convivere con il pensiero che questa signora con la scure potesse venire a prenderci da un momento all’altro. 

La vicinanza con la morte era parte del ciclo naturale della vita. Il proprio defunto, nelle ultime ore, parla e guarda i suoi famigliari prega per con loro, affida loro le sue ultime volontà.

Oggi le cose sono cambiate. La nostra società vive come se la morte non esistesse perché, come direbbe Freud, ciascuno di noi è inconsciamente convinto di essere immortale». Si muore sempre più in ospedale, si fa fatica a trovare le parole per parlare della morte – soprattutto coi bambini – e quel lutto che una volta veniva esibito ora è interiorizzato, privatizzato».

I manuali sulla “buona morte” sono rimasti in auge fino all’inizio del novecento mentre ora questo aspetto inevitabile della vita sembra essere sempre più emarginato, escluso, quasi fosse il nuovo tabù del XXI secolo. Una tendenza che può avere conseguenze importanti sul piano collettivo. Una società che riduce la propria ritualità attorno al morire, è una società che lascia totalmente soli gli individui. Così facendo, si crea una maggiore angoscia di fronte alla morte, perché non esiste più una risposta collettiva a questo evento che è inevitabilmente doloroso.

Le religione insegnava che, al momento della morte e della disgregazione del corpo, l’anima è destinata a uno stato (la beatitudine) e ad un luogo (l’eden).

La religione cristiana ha elaborato un modello tripartito, con inferno, paradiso e purgatorio. Al di là dei dogmi, però, c’era la convinzione e la speranza che il varco tra la vita e la morte non fosse un muro separatore e invalicabile.

Da un lato si credeva che, in determinate occasioni, i morti potessero tornare indietro nel regno dei vivi. Fino alla seconda guerra mondiale, i nostri bisnonni facevano cuocere le castagne per poi lasciarle in dono ai morti il giorno della festa dei Santi, il 1° di novembre. Una tradizione che si ritrova anche nel Sud Italia, dove i fedeli lasciavano qualcosa da mangiare ai propri defunti direttamente sulle tombe al cimitero.
Ma il contatto con l’aldilà si poteva instaurare anche nel senso inverso. C’era infatti il desiderio di riuscire in qualche modo a interferire nel regno dei morti, attraverso preghiere o altre pratiche rituali. L’esempio più noto è sicuramente quello delle indulgenze, il cui scopo è di alleviare o accorciare la sofferenza dei defunti in una sorta di «co-gestione da parte di Dio e degli uomini del Purgatorio».

La collocazione dei propri defunti è un aspetto centrale per alcune religioni e culture e l’evoluzione delle usanze nel corso dei secoli testimonia i cambiamenti del rapporto di un’intera società con la morte. I cimiteri, si sa, sono un’invenzione moderna. Per secoli i cadaveri sono stati sepolti in chiesa, stretti anonimamente attorno all’altare, in attesa di condividere il destino della resurrezione. 

Ora, si dice, che il lutto si interiorizza e ne consegue che le visite al cimitero diradano. La cremazione del cadavere consegna ai famigliari una scatoletta di cenere che alcuni portano in casa. o al cimitero in tumuli comuni dove fuori su una lapide viene scritto il nome e cognome di quei resti affidandoli a un destino anonimo per poi dimenticarli.

Se la vita si intreccia inevitabilmente con la morte, la società attuale la respinge per mero istinto di sopravvivenza, la occulta, la teme molto più di altre culture del passato. La tomba dei nostri cimiteri con una foto, un nome, un simbolo religioso, aiuta la nostra mente a ricordare, ma soprattutto a mantenere attivo il lutto, la perdita, in attesa di un nuovo incontro eterno.

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