QUEL PICCOLO MONDO DI IERI : QUEL PANE QUOTIDIANO DI ALLORA

QUEL PICCOLO MONDO DI IERI : QUEL PANE QUOTIDIANO DI ALLORA

L’opinione di Don Chino
2019-04-10 16:21:21

“I ricordi che ci riportano nel passato hanno qualcosa
da suggerirci, da insegnarci. Conservano esperienze, desideri raggiunti, ideali
che solo il futuro ha potuto accertare. Nel mio piccolo mondo di ieri, povero
di cose e ricco d’umano, ho conosciuto persone, vissuto fatti che hanno
lasciato in me il desiderio di correre verso il futuro con in mano la fiaccola
accesa.”
Don Chino
Pezzoli

QUEL PANE QUOTIDIANO D’ALLORA

Il pane, cotto nei
forni a legna, emanava il suo caratteristico profumo nelle strade, nei vicoli.
Per noi ragazzi, il fornaio era la persona più fortunata del mondo perché
mangiava il pane fresco, sotto i nostri occhi. L’invidia era tanta e la
bramosia anche. I panini appena sfornati meritavano un’adorazione superiore a
quella dell’ostia consacrata. Ci facevano venire l’acquolina in bocca. Tutto
avremmo fatto o inventato per impossessarsi di una sola michetta. Tenevamo
quindi d’occhio l’uscio d’accesso alla stanza della panificazione, spesso
socchiuso.
 

Quella stanza
imbiancata di farina, era per noi come un piccolo paradiso terrestre da
varcare. Le difficoltà, si dice, aguzzano il cervello e, in questo caso,
stimolavano pure la furbizia e il coraggio. Il fornaio, un uomo calvo sulla
sessantina, si recava nella stanza accanto al forno per prelevare il sacco di
farina. Bastavano quei pochi istanti per precipitarsi, impossessarsi d’alcuni
panini e via a gambe.
 

Mi sognavo persino
d’addentare un panino fresco, di nascondermelo nelle mutande, di rubarglielo al
compagno. La mia mamma lo nascondeva in casa nei posti più impensati. La fame,
sempre più presente in quegli anni di guerra e di carestia, ci stimolava a cercare
il tesoro nascosto. I panini contati, ricontati dalla mamma ogni mattina,
spesse volte erano ficcati sopra la credenza, alta tre metri circa. La  vista 
di noi figli  era diretta là sopra
quel mobile resistente e antico.
 

Quel fagotto in cima
alla madia, fu sempre per noi ragazzi come la mela per Adamo nel paradiso
terrestre. E la credenza, alta circa tre metri, l’albero d’arrampicarsi con
ogni mezzo.  Una scala? Un’acrobazia da
circo, mettendoci uno sopra le spalle dell’altro? No, non bastava. Dovevamo
accostare il tavolo massiccio di rovere alla credenza, appoggiare sopra una
sedia resistente, salirvi sopra per raggiungere l’estremità della credenza
reggendosi sulla punta dei piedi e alzando le braccia il più possibile.
 

Il rischio di un
capitombolo con o senza la refurtiva, si metteva pure in conto e le punizioni
anche. Non solo. Rubare era peccato mortale e dopo il castigo dei genitori,
c’era quello del prete, che durante la confessione, ci affibbiava la penitenza:
rinunciare, in parte, alla razione di pane per due, tre giorni.. Non so se il
prete conoscesse i vuoti di stomaco per fame, per lui la borsa del pane non si
trovava in cima alla credenza.

Non bastavano i
castighi e le penitenze del prete per farci desistere da tale furto. La fame,
infatti, fece moltiplicare il pane a Gesù e, ci mancò poco, che trasformasse le
pietre in pane. Il pane che, a parere dei nostri nonni, aveva “sette croste e
crostoni”, comportava lavoro e tanta fatica. Se qualcuno non lavorava e
mangiava il pane, si sentiva dire: “Al mangià co ‘l cò ‘n del sach”. Mangia con
la testa nel sacco, a sbafo, come un cavallo intento a mangiare la sua razione
di biada lontano da ogni preoccupazione con la testa infilata nel sacco.
 

Queste ed altre
osservazioni, servivano per farci mangiare poco, o saltare i pasti e così
risparmiare qualche panino. Puntualmente, ogni giorno, recitavamo la preghiera
del Padre nostro. La richiesta fatta a Dio del pane quotidiano, destava in noi
ragazzi qualche dubbio. Ci chiedevamo: “Come mai c’è così poco pane sulla terra
se è Dio a darcelo? Allora anche lui passa un periodo brutto, non ha il pane da
mangiare? Anche in cielo c’è la guerra?”.
 

Ricordo un mio amico
di quarta elementare, che scrisse alcuni pensierini sul pane e li consegnò alla
maestra che li lesse ad alta voce: “Il pane è un cibo necessario, ma a casa mia
i panini di ogni giorno sono quattro e a mangiarli siamo in cinque, meno male
che la mamma non mangia il pane ma la polenta”. “Chiedo sempre il pane al
Signore, alla Madonna e anche a S. Antonio, quello della statua che sta in
chiesa sopra un tavolo con un panino in mano per i bambini poveri. A me non ha
mai dato il panino”.
 

La maestra quando terminò la lettura di questi
pensierini, aveva gli occhi bagnati. Per noi che abbiamo indossato i
pantaloncini grigioverdi e la camicia nera (allora eravamo tutti balilla), il
pane è rimasto un desiderio inconscio, qualcosa di prezioso da non sciupare. Se
qualcuno lo butta tra i rifiuti, ci ribelliamo, gridiamo il nostro dissenso.
Sono ancora tanti i poveri che vanno a rovistare nelle pattumiere e discariche
delle città per sfamarsi di quel pane che noi buttiamo.

 

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