Lettera aperta a Rita la mamma di Stefano Cucchi

Lettera aperta a Rita la mamma di Stefano Cucchi

L’opinione di Don Chino
2014-11-05 14:26:14

Io so quanto soffre una mamma quando s’accorge che il figlio fa uso di sostanze stupefacenti.
Io so quanto soffre una mamma quando s’accorge che il
figlio fa uso di sostanze stupefacenti. Da più di trent’anni lotto per spaccare
la catena della dipendenza della droga nei ragazzi. Ho incontrato tante mamme
disperate, scoraggiate che con la voce interrotta dai singhiozzi mi
sussurravano: “Aiuti mio figlio!”. Quanti incontri, quante storie in questi
anni in cui si è tollerato da parte dello Stato che la droga venisse spacciata,
usata da giovani e giovanissimi. Il dolore più grande è il suo signora Rita, è
un dolore di una madre che ha assistito impotente al degrado di un figlio. La
droga è un killer spietato. Quante notti insonne nell’attesa che di Stefano
rientrasse in casa e quando la porta si apriva, a tutte le ore della notte, lei
lo fissava negli occhi, seguiva i suoi passi fino alla stanza da letto e si
diceva: “Anche questa sera è ritornato!”. Sì, perché una mamma non si rassegna
mai di fronte a un figlio che compromette la salute, la vita. Quante volte
signora Rita avrà supplicato il suo Stefano a smettere di drogarsi e
certamente, come fanno tutti i tossicodipendenti, l’avrà ascoltata regalandole
brevi periodi di astensione dalla sostanza, ma poi a breve c’era la ricaduta.
E’ più facile per un tossicodipendente smettere per alcuni giorni di drogarsi,
difficile per lui è non ricominciare. In queste promesse deluse lei signora
Rita ha trascorso alcuni anni accanto al suo Stefano perché una mamma che
partorisce la vita la difende sempre. Gli stessi reati commessi da suo figlio
erano dovuti al bisogno di avere soldi per comprare le dosi necessarie e così
placare momentaneamente la crisi d’astinenza fisica e psichica. Rubava perché
un tossicodipendente ha bisogno della droga come l’assetato dell’acqua. Le
Forze dell’Ordine signora Rita fanno il loro mestiere, fermano, arrestano chi
commette un reato. Alcuni agenti vogliono sapere da chi il tossicodipendente ha
ritirato le dosi e per farlo parlare ricorrono sovente a gesti violenti.
Ricordo, qualche anno fa, che entrando in una caserma dei carabinieri di aver
incontrato un giovane ammanettato e legato al calorifero. Mi disse che era lì
legato da almeno sette ore. Un appuntato mi disse: “Solo in questo modo
parlerà, dirà il nome dello spacciatore”. Gli dissi: “E’ una persona”. La
risposta non si è fatta attendere: “Lei faccia il prete, noi sappiamo come
trattarlo questo cane”. Io volevo aiutare questo ragazzo di 23 anni a vivere, a
recuperare il suo equilibrio. Non è stato possibile, la legge per i più poveri
va rispettata immediatamente… Ci sono agenti e giudici intelligenti e saggi,
con un cuore di “carne” che telefonano al nostro centro d’Ascolto (ad altri
Centri) per affidare alla Comunità il ragazzo sconvolto dalle droghe,
dall’alcol. Il suo Stefano l’hanno invece arrestato. Stava male? Non si sa.
Voleva vedere la mamma, la sorella? Non era possibile Lei si chiede signora
Rita: “Chi l’ha ucciso?”. Non lo saprà mai
per motivi ovvi..  Non l’hanno, infatti, ucciso i sei medici condannati in
primo grado per omicidio colposo e assolti in appello il 31 ottobre. Né i tre
infermieri e i tre poliziotti che già erano stati prosciolti nel processo in
Corte d’Assise. I giudici di Roma della II Sezione il 31 ottobre hanno sentenziato
“che il fatto non sussiste”. Eppure la diagnosi del cadavere attesta
che il suo Stefano è stato massacrato di botte. Mi dispiace dirle la verità
signora Rita, i tossicodipendenti sono detenuti particolari o meglio rifiuti
speciali nelle nostre carceri. Non sono vite da recuperare con un programma
terapeutico, ma da condannare. Alcuni si condannano da soli, si uccidono, altri
sono messi in condizione di farla finita per solitudine, abbandono,
maltrattamenti. Stefano invece porta i segni dell’uccisione. I giudici hanno
indagato, ma come? Perché non ci sono colpevoli? Lei come mamma ha il diritto
di conoscere chi ha sfigurato il corpo di Stefano con pestaggi, chi non ha
prestato soccorso a un giovane agonizzante. La sofferenza di una mamma dovrebbe
bastare per mettere in attivo la coscienza di chi sugli scanni del potere
giudiziale sentenzia. Liquidarla cara signora Rita con la subdola forma” il
fatto non costituisce reato” è davvero sconcertante. Un pestaggio e la
conseguente morte non costituisce reato? Ho un dubbio cara mamma che il suo
Stefano non troverà giustizia, per un ovvio motivo: in questi casi vanno
tutelati i rei che fanno parte delle Istituzioni. Non sarebbe la prima volta…
Lei con sua figlia Ilaria e altri famigliari e amici, non smetta di gridare, di
lottare perché la verità sulla morte di suo figlio sia conosciuta dalla gente e
le responsabilità accertate. E’ un atto dovuto alla dignità che si deve a ogni
persona, specialmente se si trova in condizione di degrado umano. Da un po’ di
anni non si vuole più parlare dei drogati e delle loro assurde condanne. Ci
sono pene alternative al carcere: l’affidamento a una struttura terapeutica, la
cura in Centri specializzati per le doppie patologie, l’aiuto con terapie
mirate. Non è senz’altro il carcere a riabilitare una mente sconvolta e
dipendente da sostanze stupefacenti e psicotrope. Il suo Stefano è nella bara mentre
i giudici con un gesto pilatesco si lavano le mani. Faccia almeno sentire
attraverso i media il suo pianto e quello di altre mamme che hanno assistito
inermi all’uccisione del figlio dal killer spietato della droga o attraverso
maltrattamenti carcerari e l’indifferenza di medici e infermieri. E se non
bastasse? Un risultato è certo signora Rita, quello ottenuto da sua figlia Ilaria
di aver fatto conoscere all’opinione pubblica che i tossicodipendenti sono persone
da rispettare, da aiutare a vivere. Farli morire o lasciarli morire soli in una
cella è reato.

 

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